Rivignano Teor, 22 dicembre 2025 – Il 2025, per me, è stato un anno pragmatico.

Un anno in cui i risultati sono arrivati — concreti, tangibili, visibili.
Molte persone che ho seguito in azienda, manager, responsabili, figure chiave, hanno fatto un salto reale di crescita.
Hanno superato limiti che sembravano strutturali, ottenendo risultati fuori dal comune.
Eppure non si è trattato di miracoli. Erano risultati a portata di mano, che i diretti interessati non credevano realizzabili fino a quando qualcuno non ha dato loro la teoria, il metodo, la visione e — forse — anche un po’ di fiducia.

Da questo punto di vista, il 2025 è stato un anno pieno di senso.
Un anno efficace, dove la formazione non è rimasta teoria, ma si è tradotta in cambiamenti reali nelle persone e nei comportamenti organizzativi.

Eppure, accanto a questa soddisfazione profonda, è rimasto anche un senso di ingiustizia, sottile ma costante.
Un filo che ha attraversato molte situazioni, come un rumore di fondo che non si può ignorare.

La prima ingiustizia: un sistema che si è inceppato

Da anni lavoro nella formazione aziendale, spesso collegata ai fondi interprofessionali.
Con il tempo, però, ho notato un meccanismo che si è un po’ incagliato.

In ogni progetto entrano in gioco tre attori: l’azienda, l’ente e il docente.
Tre ruoli che dovrebbero collaborare per lo stesso obiettivo — far crescere persone e organizzazioni — ma che non sempre operano da pari.

L’ente fa un lavoro importante: gestisce la parte amministrativa, la rendicontazione, il rapporto con i fondi.
Nulla da eccepire.
Il problema è che, nel farlo, spesso si perde di vista la parte sostanziale, quella che dà senso a tutto: la relazione con le persone, la qualità del contenuto, l’analisi dei bisogni.

Capita così che l’analisi iniziale, quella che richiede ascolto, tempo, esperienza, venga catalogata come “attività commerciale”.
Che i compensi siano uguali per tutti, a prescindere dal valore e dalla complessità dell’intervento.
E che la burocrazia finale — test, report, documenti — finisca per ricadere interamente sul docente, senza riconoscimenti né proporzioni.

Non lo dico per lamentarmi. Lo dico perché questo squilibrio impoverisce tutti.
Quando uno dei tre attori si trova a coprire le falle del sistema, la collaborazione non è più collaborazione: è sopportazione.

Servirebbe rimettere in equilibrio le parti: riconoscere che l’analisi è una fase progettuale vera, che la competenza va valorizzata in modo proporzionale, e che la relazione con l’azienda può e deve essere condivisa, non monopolizzata.

Solo così si può tornare a parlare di lavoro di squadra, non di ruoli fissi dove uno crea valore e un altro lo distribuisce.

La seconda ingiustizia: la copia senza dignità

L’altra forma di ingiustizia che ho percepito quest’anno è più personale, ma non meno significativa.
Ho visto persone — alcune perfino vicine — copiare senza pudore i miei format, i miei eventi, i miei modelli.
Persino le introduzioni musicali in stile Hans Zimmer, che avevo ideato per creare emozione e impatto nei miei talk.
Una sorta di “replica non autorizzata” di un linguaggio che avevo costruito con anni di ricerca, esperienza e passione.

All’inizio ho provato fastidio. Poi amarezza.
Oggi, onestamente, accetto la realtà per quella che è.
Chi copia ammette implicitamente che quel modello funziona.
E se funziona, va bene così.
Io so di avere le capacità e la visione per creare altro, sempre.
Gli altri, prima o poi, pagheranno le conseguenze del vuoto creativo in cui scelgono di vivere.

Credo profondamente che nella vita esista un meccanismo compensativo.
Non è vendetta, è equilibrio: ciò che si prende senza averlo generato non porta mai frutto duraturo. Già da subito, per chi conosce, è motivo di reputazione negativa.

La riflessione più grande

Ciò che tengo di questo 2025 è la certezza che il mio lavoro continua a produrre impatto reale.
Che nelle aziende, nelle aule, nei percorsi che ho condotto, da ormai 17 anni compreso questo 2025, ho visto persone cambiare modo di pensare, di agire, di vivere la responsabilità.
Questo è ciò che resta.
E mi basta per guardare al 2026 con fiducia, senza perdere lucidità né idealismo.

Un ultimo pensiero

Mi è capitato, per poche ore, di lavorare con persone disoccupate.
Ho sospeso il giudizio per chi ha reali problemi di salute, ma per gli altri — devo dirlo — le eccezioni erano poche.
Nel 2025, con la disoccupazione ai minimi e le aziende del Triveneto che faticano a trovare personale, ho spesso pensato che chi è disoccupato, salvo rari casi, ha un motivo — e non è confortante.
Una constatazione dura, ma onesta.
La stessa che fa male anche a me, perché il mio lavoro nasce dal desiderio opposto: vedere le persone rimettersi in moto e ottenere risultati.

La Fatica invisibile del Comando

Ho visto anche tanti imprenditori e responsabili affaticati, stanchi, al limite della sopportazione.
Troppe le resistenze da vincere per andare avanti, troppi i problemi per potersi concedere il lusso di dire: “oggi finalmente una giornata leggera.”
Avere a che fare con i clienti, spesso, non si capisce più niente. Con i collaboratori, nemmeno. Con i fornitori, peggio ancora.
Modelli che un tempo funzionavano oggi sembrano aggrovigliarsi su se stessi, come se la complessità avesse deciso di abitare stabilmente nei processi quotidiani.
A tutti loro — a chi ogni giorno regge, tiene, decide, si espone — dico una sola cosa: coraggio.
È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo, perché migliorare il mondo, anche solo un pezzetto alla volta, resta il compito più nobile che ci sia.
E ricordate: al comando, piaccia o no, si è sempre soli.
Pertanto, imparate ad amare la solitudine: è lì che si forma la vostra vera forza.

In conclusione

È stato un anno pragmatico, sì.
Efficace, sì.
Ma anche pieno di consapevolezze nuove: che la giustizia professionale è fragile, che la creatività autentica è rara, e che il lavoro vero continua a essere l’unico terreno di riscatto possibile.

 

By Local Press Office